Non la smania di salvezza, nessuna fervida volontà di redenzione spingono la giovane Lea ad attraversare l’India in Quel fiume è la notte (Fandango Libri, 2016). Semmai la mite speranza di individuare un senso e la giustificazione a un aborto deciso troppo in fretta, l’infantile desiderio di trovare il modo di riavvolgere magicamente il nastro del tempo e impedirsi la scelta che ha troncato tutta la vita pregressa all’interruzione di gravidanza. Quella vita che l’aborto avrebbe dovuto preservare: la faticosa accettazione di sé, la frastornante conduzione di giornate italiane inzeppate di incombenze anestetiche, la convivenza con l’amato Cesare.
La Lea che incontriamo nelle prime pagine di questo romanzo di abbacinante bellezza, è una ragazza rallentata dal cordoglio e dal rimorso.
Il peggio è già stato smaltito in una depressione appena superata.
E come tutte le persone scampate per un soffio all’autoannientamento, questa viandante, questa disarmata pellegrina diretta al Gange, manifesta tolleranza e accoglienza nell’accostarsi a una realtà che dal primo impatto diverge dalle aspettative.
L’India di Flavia Piccinni (nella foto sopra) e di Lea infatti non è un luogo armonioso e mistico. La povertà degli indiani non è spirituale, ma disperata. Ogni interazione con gli autoctoni è contrassegnata dalla difficoltà degli interlocutori di sintonizzarsi su codici univoci. È emblematico, in questo senso, che gli indiani annuiscano per negare e scuotano la testa per affermare. Che autisti e guide spesso fingano di non capire bene l’inglese per “sequestrare” i turisti e dirottarli dai commercianti con cui sono collusi. Che gli europei siano approcciati unicamente in virtù del loro essere possessori di un conto corrente.
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Titolo: Quel fiume è la notte
Autrice: Flavia Piccinni
Pagine: 234
ISBN: 9788860444868