a_book_aholic / 3 luglio 2019
Eccoci arrivati alla terza tappa di questo Blog Tour dedicato a “Memorie di una donna medico”, un libriccino in cui Nawal al-Sa’dawi (femminista, attivista, scrittrice e medico psichiatra) è riuscita a racchiudere un mondo.
Questo piccolo memoir non parla soltanto della condizione femminile nel mondo arabo, ma di tutte le battaglie e le sfide che ogni donna è chiamata ad affrontare durante la sua vita, soprattutto se cresce in una società a forte impronta maschilista, ancor più se sceglie di operare in campo scientifico.
Ci sarebbe davvero tanto da approfondire in poco più di cento pagine, ma ho scelto in questa tappa di focalizzarmi su un tema che ho percepito intensamente durante la lettura: quello della solitudine.
Questa parola assume troppo spesso una connotazione negativa. Se qualcuno è ‘solo’, tanto vale ammettere che sia anche triste. In pochi si soffermano a pensare che, talvolta, la solitudine può essere l’unica via di fuga da un contesto vissuto come opprimente e inadeguato.
In “Memorie di una donna medico” la solitudine acquisisce questa e tante altre sfumature durante la vita di Nawal al-Sa’dawi.
L’autrice racconta la sua infanzia e adolescenza come un periodo irrequieto, pieno di rabbia e frustrazione per la scoperta di una femminilità poco accetta e per le prime, amare consapevolezze su cosa essere donna comporti in una società costruita a misura d’uomo.
Sempre più spesso Nawal scappa dal confronto con i suoi genitori e dal gioco con i suoi coetanei, da cui avverte una sofferta distanza, e si rifugia nella solitudine della sua stanza.
“Ero così triste per me stessa. Mi chiudevo nella mia stanza e mi sedevo a piangere in solitudine. Ho pianto per la mia femminilità prima ancora di conoscerla”
In questa fase della sua vita, la solitudine è l’ancora di salvezza che le permette di dedicarsi con tutta sé stessa agli studi per diventare medico. La medicina sarà il primo vero obiettivo per Nawal al-Sa’dawi, il simbolo del riscatto e dell’autoaffermazione.
Tuttavia, anche la medicina si rivela presto piena di insidie che riportano a galla la vecchia inquietudine: l’affollamento durante le lezioni pratiche, il rapporto poco rispettoso nei confronti dei pazienti, il brusco scontro con la freddezza della morte.
È a questo punto che Nawal si allontana ancora, fugge dalla città e si rifugia in un paesino sperduto.
“Era la prima volta che sedevo sola con me stessa, ed era come se mi stessi scrollando di dosso tutti gli abiti che si erano accumulati su di me negli anni passati”
La solitudine è quindi solo un luogo virtuale dove fuggire all’occorrenza? No.
È anche un tempo per riflettere, per comprendere sé stessi, per decidere cosa ne sarà del proprio futuro e quanto della propria interiorità si è disposti a mostrare ancora ad occhi estranei. Lo stare soli rende più ricettivi verso il mondo esterno. E infatti anche per Nawal giunge nuovamente il momento di tornare sui suoi passi.
“Dopo tutto questo, come potevo chiudermi in quella solitudine desolata? Dovevo tornare. E tornai, tornai a casa mia, dalla mia famiglia, al mio lavoro e alle visite mediche. Spalancai le braccia alla vita”
Spalancare le braccia alla vita significa anche aprirsi alla possibilità dell’amore. La condivisione con un partner è uno dei modi più dolci di abbandonare la solitudine. Ma Nawal al-Sa’dawi scopre a sue spese che il matrimonio può non essere l’esperienza placida che aveva sperato. Al contrario, può rivelarsi proprio la ‘prigione’ che aveva tanto temuto e aborrito da ragazzina.
“Fu come firmare il mio certificato di morte. Il mio nome, all’udire il quale le mie orecchie di schiudevano, e che nella mia coscienza e nel mio intimo era legato alla mia esistenza e corporeità, fu annullato, e il mio involucro fu marchiato con il nome dell’uomo che avevo sposato”
Le vecchie inquietudini e frustrazioni, sopite per un breve periodo, ritornano ancora più intensamente.
Nawal non si dà pace, e come darle torto. Qualsiasi donna, in qualsiasi contesto, non dovrebbe mai essere posta di fronte ad una scelta così crudele: la solitudine o l’assoggettamento. Essere sola o essere sottomessa. Il partner dovrebbe essere un compagno di vita, non un padrone.
“‘Io sono l’uomo’
‘Che cosa significa questo, scusa’
‘Significa che sono io che comando’
‘Comandi cosa?’
‘Comando questa casa e tutto quello che c’è dentro, inclusa te’”
Ancora una volta, la forza e lo spirito di ribellione dell’autrice riescono a liberarla dalle sue catene e a condurla nel rifugio della sua solitudine. Ma questa volta è un tipo di isolamento diverso.
Dietro il piacere di gestire finalmente in autonomia i propri spazi e il proprio tempo, c’è la disperazione di aver dovuto assecondare una scelta obbligata. E l’inquietudine del dover ammettere a sé stessa che la solitudine a volte ha un peso difficile da ignorare:
“Quant’era fredda la solitudine! E quant’era terribile il silenzio! Che cosa potevo fare? Saltare giù dalla mia vetta? Ma mi sarei spezzato il collo nell’impatto”
Ci vuole tanto coraggio nella scelta della solitudine, quanto ce ne vuole nella scelta di abbandonarla. Ogni donna (ogni essere umano) prima o poi deve rischiare di spezzarsi, di perdere qualcosa di sé, pur di tentare di afferrare l’elemento percepito come mancante nella propria vita.
In questo caso può essere l’amore? Forse. Vi rimando alle ultime pagine di questo intenso volume per scoprirlo.
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