Gender Identity: I’m every woman di Liv Strömquist

Martina Marianella / 1 agosto 2019

 

I’m every woman: un pensiero fraintendibile nel suo significato. Liv Strömquist gioca con la dicotomia attraverso la citazione sottile di un brano di Chaka Kan, uscito nel 1978. La canzone racconta di come una donna, racchiusa in sé ogni personalità femminile, possa essere finalmente perfetta per il suo uomo. Un’esasperazione dei ruoli che attualmente sembrerebbe anacronistica, forse, o alla quale ogni donna si opporrebbe, dando uno sguardo alle fasi del movimento femminista del secolo scorso. La condizione attuale della donna non potrebbe, di certo, definirsi la stessa di cinquant’anni fa: ma quali sono state le condizioni che hanno dato il via al cambiamento? L’evoluzione sociologica della popolazione ha portato ad una progressiva affermazione dell’uguaglianza di genere, sempre più distante dai preconcetti interposti tra identità sessuale e gerarchie sociali.

Liv Strömquist, nello specifico, ripercorre il racconto femminista attraverso voci di donne che, per una ragione o per l’altra, si siano trovate a seguire i loro uomini, non solo sostenendoli nella scalata verso il successo, ma anche nell’annullamento di loro stesse. Ma non si può parlare di grandi uomini senza far menzione delle grandi donne al loro fianco, e Liv lo sa bene. Il suo trattato postmoderno analizza, attraverso lo strumento del graphic novel, il processo di affermazione della donna come identità indipendente e libera, attraverso fonti storiche, giornalistiche e biografiche dirette ed indirette, soffermandosi specialmente sull’aspetto più sociale di un processo che, nel bene e nel male, dovrebbe coinvolgere ogni uomo.

Basti pensare alla figura di Priscilla Presley, moglie del cantante Elvis o ancora a Ronnie Spector, frontwoman del gruppo femminile The Ronettes: la prima trattata come un trofeo da mostrare, la seconda vittima delle ossessioni malate del marito. Di chi stiamo parlando? Nient’altro che del famoso produttore discografico Phil Spector. Erano gli anni del rock and roll, delle rivoluzioni, ma si era ancora lontani dall’idea di uguaglianza tra uomini e donne. La nostra autrice, però, sceglie di partire dal principio, parlando non di una, ma di tutte le grandi donne oscurate da grandi uomini e di cui mai si è sentito parlare. Racconta la verità, unita a tutte quelle situazioni scomode ed insidiose che portarono il nostro Einstein, ad esempio, a dichiarare la paternità della teoria sulla relatività, anche se precedentemente sperimentata con la moglie. Mileva Mari, anche lei fisica, anzi la prima ad averla studiata al Politecnico di Zurigo. Si è mai sentito parlare di lei?

 

 

Lo stesso percorso tematico ed iconografico analizzato da Liv Strömquist può essere affrontato attraverso l’evoluzione della moda che, per prima, si è trovata a subire una lenta “emancipazione” nel suo processo di democratizzazione. Ebbene sì, anche se potrebbe risultare strano, la moda si è evoluta lentamente in un processo di avvicinamento alla donna, rendendola unica, bella, speciale. La moda, nel suo processo evolutivo, ha abbracciato le donne ed è vicina alle donne. A tutte loro. A cominciare da Tulla Larsen, compagna di Edward Munch, per poi concludere con Yoko Ono, la moda si è trovata a subire una trasformazione continua, seguendo non solo il corso trascinante degli eventi, ma anche il progresso della società. Se la moda costringente delle sorelle Shelley si mascherava dietro l’amore libero del marito narcisista Percy, le minigonne ed il gender fluid furono il punto di forza che portò donne come Ronnie Spector alla ribellione.

La moda, influenzata dai tempi, cominciò lentamente a manifestarsi come rappresentazione della propria essenza, abbandonando per sempre l’idea di status sociale o di caratterizzazione di genere. La stessa teoria, confermata ed analizzata da sociologi quali Blumer e Lipovetsky, sarà sostenuta con forza da Diana Crane, la quale parlerà dell’influenza della moda nella società e dell’identità di genere attraverso il fenomeno del “bottom-up”, che ebbe la sua massima espressione verso la metà degli anni Settanta, nel processo di democratizzazione della moda. Non importa che la donna sia nuda o vestita, dal fisico asciutto o dalle curve morbide. Non importa come voglia apparire, a patto che la moda diventi piena espressione della sua personalità. Un processo inevitabile, dando uno sguardo al passato ed ai canoni di abbigliamento che imponevano l’appartenenza ad uno status, o peggio, ad una classe sociale volta a spersonalizzare l’identità di ognuno. Di conseguenza, se il femminismo è rappresentato di per sé come una lotta per l’uguaglianza, la moda può essere, senza dubbio, definita il suo principale strumento. La Crane continua la sua analisi attraverso la definizione di abiti “chiusi” ed “aperti”, tesi a rappresentare o meno l’uniformità e la fluidità di genere. “Le donne hanno saccheggiato l’intero guardaroba maschile – scrive parlando del jeans – e talora si sono preferiti abiti unisex”. Il jeans: lo stesso “abito unisex” che definirà la donna del nuovo secolo, declinabile nei più svariati usi e nel racconto di diversi aspetti della propria personalità. Lo stesso capo con cui Liv decide di rappresentare Yōko Ono, la figura di donna indipendente per eccellenza: forte, vera ed anche un po’ strega nell’immaginario collettivo, ma al tempo stesso bella ed ammaliante, per i medesimi motivi.

Pertanto Liv, nel suo processo creativo, racconta l’indipendenza femminile attraverso l’evoluzione delle culture e della società, che appaiono esattamente come lo specchio della moda, e della sua mutazione attraverso i secoli.

Nessuno può definire se il processo sarà breve, ma possiamo affermare con certezza che in entrambi i casi la chiave sia una: l’uguaglianza. Solo in quel momento, quando sarà la stessa uguaglianza a dominare ogni dinamica politica e sociale, potremmo finalmente guardarci negli occhi e dichiarare a piena voce: I’m Every Woman, sono ogni donna. Non per loro, per me stessa.

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