Quanto il corpo vestito è in grado di influire sulla percezione del singolo?
Una domanda alla quale, in apparenza, sarebbe molto semplice dare una risposta intuitiva: moltissimo. L’abbigliamento di ciascuno influisce in maniera sostanziale sulla percezione di ognuno, sebbene l’argomento in tempi recenti verrebbe probabilmente affrontato con un sorriso, o addirittura tacciato a superficiale.
Gli studi relativi alla sociologia della moda si potrebbero considerare relativamente recenti. A partire dagli anni Settanta, nel pieno periodo della rivoluzione culturale e politica mondiale, gli studi sociologici del vestire hanno trovato piena connessione con gli studi antropologici legati non solo al vestiario, ma anche alla relazione con il proprio corpo.
Il motivo di tutto questo? L’esplorazione del nostro corpo non può considerarsi legata soltanto ad un carattere strettamente scientifico, ma è definita il principale strumento di analisi di ciascun substrato culturale. Di conseguenza il corpo, ed in particolar modo il corpo “vestito”, diviene lo strumento fondamentale di analisi storica e contemporanea di ogni civiltà.
In merito a tale ricerca, risulta ancora più interessante porre la propria attenzione su come il corpo abbia assunto le sembianze di vero e proprio specchio dei più vasti scenari storici, economici e politici e di come “l’estetizzazione del mondo” proposta da sociologi quali Lipovetsky e Serroy non sia poi così lontana dalle realtà esistenti.
Un chiaro esempio della realizzazione del processo è percepibile nelle società africane e subsahariane e, nello specifico, nel loro non troppo recente approccio al sistema moda. Il tema del corpo e delle sue manipolazioni attraverso l’abbigliamento è sempre stato presente e silente nell’identità locale e, ciò che un tempo poteva considerarsi semplice tradizione, ora è pronto ad esporsi, ad entrare finalmente in stretto rapporto con il globale.
Allo stesso modo, fenomeni artistici e rituali tradizionali possono facilmente porsi in relazione a caratteri vestimentari, volti non solo a identificare un popolo in ogni suo aspetto, ma ad avvicinarsi, seppur con lentezza, ad un’idea sempre più radicata di commistione culturale.
Basti pensare alle città che fanno da sfondo alle settimane della moda africane per avere un’idea più chiara di come la comunione di genere e di culture voglia regnare indisturbata in territorio africano. La Nigeria, il Senegal, il Sudafrica sono pronti: i giovani talenti crescono di anno in anno, come anche la loro sfida nel combattere le debolezze dell’economia locale.
La nuova moda africana è un teatro postmoderno volto a riciclare e accostare elementi differenti al fine di rivendicare un’identità che non sia necessariamente solo africana, ma quanto meno caratterizzante.
Il romanzo di Chibundu Onuzo, “La figlia del re ragno” ci lascia con la stessa percezione. Abike, la protagonista, manifesta continuamente un forte attaccamento ad estetica e vestiario per la definizione di sé stessa, tanto socialmente, quanto individualmente. I suoi abiti sono fortemente occidentalizzati, il suo gruppo di amici rispetta gerarchie sociali estremamente comuni, quasi a sembrare stereotipate.
L’accento occidentale è evidente in ogni loro discorso, ma appare quasi estremizzato, come volto a descrivere altro. Una cultura, ad esempio. Abike si affezionerà ad un ragazzo, nel corso del romanzo, di ceto sociale differente dal suo. Lui vive nella Lagos povera, che Abike definisce mentalmente attraverso caratteri specifici: odori, ambienti tipici, si fondono col suo celato disgusto verso un mondo a cui non sente di appartenere, ma dal quale è incuriosita, poiché radicato in lei. La sua affezione per il ragazzo che deciderà volutamente di chiamare “Ambulante” e di cui non si conoscerà il vero nome, è un chiaro aspetto del fenomeno di estetizzazione analizzato da Lipovetsky.
La caratterizzazione del personaggio è evidente, non solo dalla sua caratterizzazione all’interno di un sistema societario, ma anche dal suo modo di vestire. Abike lo osserva, critica il suo vestiario ed i luoghi che frequenta, per poi finire con l’indossare, al loro primo appuntamento, i suoi jeans logori. Lo scopo? Certamente quello di uniformarsi, di sentirsi adatta ad un contesto che non sente proprio e che fatica ancora a comprendere come una semplice minigonna, ad esempio, non sia necessariamente associabile ad una “Ashewo”, una prostituta.
I riferimenti relativi al modo di vestire sono costantemente presenti. Descrivono realtà differenti, aiutano ad entrare in contatto con una percezione dell’adolescenza che in Occidente è ben definita da tempo.
Il contrasto tra le due facce di Lagos, quella povera dell’ambulante e quella ricca di Abike, fa da contorno ad ogni vicenda, quasi a giovarne la descrizione.
Un libro che all’apparenza potrebbe raccontare una storia forse scontata, o immaginabile, in grado di nascondere un mondo, dietro una frivolezza… totalmente apparente.
Segui fashionandbook su Instagram.