Tiziana Barillà / 24-04-2020
Se questa è la normalità, allora me ne vado. Sono arrivata a questa conclusione esattamente due anni fa, quando decidevo di lasciare la grande città con le sue nevrosi, per ritrovare ossigeno e vita.
Un virus è piombato sulla nostra malsana normalità. Semina morte e paura in una società di morte e paura. E ci costringe tutti a uno stop. Questo fermarci, adesso, ci mostra quanto effimere fossero le libertà che avevamo fino a ieri. È davvero libertà essere liberi di essere infelici?
Dopo anni di caccia al nemico e odio dell’altro, ora una comunità che si era smarrita cerca di ritrovarsi. Cerca unità dove c’era divisione, cerca fiducia dove imperava il cinismo. Cerca senso collettivo in un mondo di egoismi e opportunismo.
Questa società è il corpo stanco di una donna. Troppo stanca per sopportare ancora egoismi e cattiveria. Troppo forte per tollerare altri soprusi. Troppo umana per credere ineluttabile la condanna a una vita a metà.
Morte e povertà ci hanno raggiunti da questa parte della barricata. Le nostre protezioni sono saltate e possiamo vedere quel che – da un pezzo – è all’ordine del giorno per l’altra metà del mondo.
Il problema non è il virus, ma il capitalismo. Se qualcosa di buono resterà da questa tragedia sarà l’averci messo in guardia da questa inumana normalità.
Dalla quarantena, vi racconto la mia personale fuga.
Accettatelo come un invito a fare altrettanto.
Aprile 2018.
Il vento fresco riaccende in me la voglia di vivere, mentre ingrano la terza e mi lascio alle spalle i palazzoni, cavalcando le fosse della strada.
Lascio Roma, una scelta di vita. Lascio la grande città, la giungla che mi ha dato carezze e schiaffi per più di un decennio. Mi sottraggo. Imbocco l’autostrada e lascio dietro di me il traffico invadente, l’aria che toglie respiro invece di restituirlo, il tempo che non basta mai, i grandi e piccoli desideri disattesi, sistematicamente. Un caffè o un abbraccio, ormai tutto è diventato un’impresa. Titanica, talvolta.
Vivere per lavorare. Guadagnare il necessario per pagare l’affitto della tua prigione. Correre, correre, correre. Fino allo stremo, fino a non rendersi più conto di dove si sta andando. Cammino tra i pochi che camminano a passo d’uomo con gli occhi aperti, mentre tutti intorno corrono con gli occhi chiusi, battendosi le mani sulle orecchie.
E dire basta. Stop al ‘vaffanculo’ che – certamente – mi aspetta non appena varcherò la soglia di casa. Stop alla rabbia, alla frustrazione, a quel sentirsi sempre ‘meno’, sempre un po’ ‘meno’ di ciò che ti viene richiesto di essere.
Sono Donna io, mi ripeto. Quel pensiero non mi appartiene. E allora perché piegarmi a esso? Perché emanciparmi a parole e non anche con il corpo, con la mente, con il cuore?
Così, fare una scelta si traduce ancora una volta in ‘andare via’. Che è sempre doloroso e liberatorio insieme, perché vuol dire anche lasciare un pezzo di me. Di quella me che, con le tasche vuote e il cuore pieno, vengo accolta dall’abbraccio di Roma. Niente di quel che sono esisterebbe senza Roma. La mia nuova città, che ha saputo abbracciarmi quando lasciavo il più grande pezzo di me, Reggio.
Ma adesso ho fame e sete di vita. Di andare a vivere, fare quello che dico e che penso. Agire, oltre che pensare. Riprendere la vita tra le mie mani. L’ossigeno, il tempo, la gentilezza.
L’autostrada cede il posto a una strada un po’ più rotta, eppure è quella la strada per la libertà. Umbria. Altri abbracci mi aspettano, abbracci che col tempo non allentano la presa, anzi. Casa. La casa senza tempo, la mia nuova casa.
Aprile 2020.
Siamo ancora qui, a scacciare via i pensieri pesanti. Non c’è luogo al mondo in cui scompaiano da sé. Sveglia presto, scrivere, allenarsi, respirare.
Chi l’avrebbe detto – anche solo poche settimane fa – che mezzo mondo sarebbe rimasto rinchiuso in casa. Per l’altro mezzo è cambiato poco, una casa non ce l’ha e la morte al fianco ce l’ha dalla nascita. L’uguaglianza di nascita continua a essere solo un’idea. E manco di tutti. Impraticata, irrealizzata. Ancora troppo lontana dall’essere realtà.
Io sono tra i fortunati. Tra chi ha una casa e ha amore. Anzi di case ne ho più d’una, di amori anche. Da questa parte della barricata – che mi colloca dove i miei ideali mi dicono che non dovrei stare – leggo e ascolto riflessioni sparse, in questi giorni di pandemia.
No, questo che viviamo non è il miglior mondo possibile. L’umanità proprio non è fatta per sottostare a una gerarchia. Qualunque essa sia.
Adesso che viviamo in clausura, spero, riconosceremo un po’ di più il valore della libertà. Libertà di muoversi, di amare, di vivere, di essere felici.
Raccolgo ancora le idee. Non si dovrebbe mai smettere di raccogliere le idee. E poi darle in pasto al cuore proprio e altrui. Vivere è proprio una scelta. Ed è a vivere una vita che non è la tua che ci vuole coraggio.