Giulio Cavalli / 24-09-2020
Soffro di depressione da più di dieci anni. Va e torna. Ogni tanto scompare improvvisamente e ogni tanto arriva velenosa e sottile, non facendosi vedere, quando trova socchiusa qualche porta sul retro. Nei periodi di buio la disperanza è una compagna molle che mi si attacca addosso, qualcosa contro cui è impossibile combattere perché mi è quasi consolatorio averla.
Subisco mattine che mi chiedono solo che sia presto sera, scrivendo per mestiere me la ritrovo negli articoli o nei libri come quel brutto alone che lasciano le tazzine di caffè sui fogli.
Muoio tutti i giorni, mi accade preferibilmente di notte, comunque nel sonno, anche di pomeriggio se mi addormento davanti a un film stagnante o sotto un brutto libro che mi cade sulla faccia. Muoio liscio, senza intoppi e senza sorprese: è una morte puntuale e quotidiana come il pane che finisce, una morte ordinata come una fila di scolari in gita.
Non è un incubo, l’ho chiamato incubo per anni ma è una definizione zoppa, non ci sono le parole per la morte nel sonno di cui muoio io, forse c’è una spiegazione medica ma gli psicologi che me ne parlano provano goffamente ad annacquarla e gli psichiatri l’affrontano proponendo qualche stordente chimico: dicono che, per non morire tutti i giorni, mi basterebbe semplicemente essere un po’ meno vivo tutti i giorni, volare più basso così la caduta non sarebbe più un tonfo, ma semplicemente un inciampo.
Muoio rivivendo la morte come me la programmavo quando ero una crosta nel letto. In quel periodo morivo anche da sveglio, credetemi è una bella seccatura, ma allora l’avevo deciso io, la minaccia dinoccolata era uscita direttamente dalla porta scricchiolante della mia testa e poi mi si era incagliata sotto la lingua, non avevo il coraggio di dirmelo, figurarsi di dirlo agli altri, ed è andata a finire che l’ho raccontato solo quando mi è passata. Se mi è passata.
La morte che mi fa morire tutti i giorni invece mi arriva nel sonno, anche nel semi-sonno quando immobile mi mimetizzo con il resto del mondo su cui sono seduto, mi monta in un incubo avviluppato sul tronco del mio dormire e poi mi riempie la bocca e gli occhi fino al momento in cui mi sveglio. Mi sveglio e mi sbrodola fuori, un rigetto.
Così quando apro gli occhi, non è mica uno zero,come un normale ridestarsi, ma mi tocca ripartire da un conto negativo, da un fuorigiri che sbiella tutte le corde del cuore e ogni volta è la stessa storia: prima devo trovare uno spiffero per farci passare almeno un sorriso che basti per ossigenare un po’ di coscienza, poi le vertigini guardando indietro il buco in cui sono finito, poi il tentativo – goffo e patetico – di dirmi che è solo un incubo. Un incubo, non vorrai mica credere al panico degli incubi?, mi dico, e invece no perché l’incubo è un incubo ma il panico è realissimo, poi mi ripeto che sarà il caso, sarà un caso, i brutti sogni succedono e ce lo insegnano fin da piccoli, ma un caso che accade tutti i giorni è un accidente quotidiano e un accidente quotidiano è una regola che non si ha il coraggio di riconoscere.
Poi allora me la gioco sulla consuetudine, dovrei essere abituato no?, certo che sì, ma figurati se puoi abituarti a morire tutti i giorni, siamo stati fatti per morire una volta sola, una morte più o meno riuscita e teatrale, magari con la paura di morire tutta la vita, ma morire tutti i giorni è contro natura non c’è sofismo che funzioni, poi mi osservo sparpagliato in giro e mi ricucio i brandelli, sono una bambola di tessuti diversi recuperati con un po’ di fortuna, ogni volta ho un pezzo preso da qualche morte precedente e infine ricomincio a scalarmi dai piedi fino alla punta del naso per tornarmi a galla. Un capodanno pestifero e quotidiano.
Mi proteggo odiando tutti gli altri e odiandomi per il tanto odio. Solo dopo comincio a riconoscere quelli vicini. Per l’amicizia ci vuole una ventina di minuti. Per gli amori almeno un’ora. Cagionevole, reimparo a camminare, leggere, grattarmi, parlare, mangiare, ascoltare. Fidarmi di nuovo non sempre mi riesce. Sono un mostro zoppo, sopportabile solo nelle punte di questa curva che disegna il mio tempo e che ha i picchi nel punto più alto della ripresa prima di addormentarmi di nuovo e ha il suo punto più basso nella bocca impastata a fine torpore.
Muoio tutti i giorni. Non è nemmeno troppo male. Basta farci l’abitudine e non dirlo a nessuno. Finché funziona. Faccio i conti con la speranza da tempo, con la speranza di non volermi più fare male e con la sensazione futile di essere un caso raro seppur nella bruttezza.
Il primo passo per uscirne è riconoscersi non solo. Non è questione di compagnia intesa come comunità ma è la compagnia della comunanza: c’è un mondo che striscia in fondo alla brace tiepida del quotidiano che ha le stesse ferite, gli stessi segni e li indossa nascondendoli. Mostrarli, conoscersi e soprattutto riconoscersi è il primo bivio da imboccare con cura.